Ring TV: Saishūshō
Finora abbiamo esplorato varie versioni cinematografiche di Ring: “Kanzenban” di Chisui Takigawa, il primo e il secondo capitolo di Hideo Nakata, il sequel apocrifo “Spiral” (Rasen) di Jōji Iida, il prequel “Ring 0: Birthday” di Norio Tsuruta e, infine, proprio all’apertura di questa seconda parte dello speciale, la versione coreana “The Ring Virus”. Come avrete notato mancano ancora all’appello i remake americani, ma non siate troppo precipitosi, c’è ancora un bel po’ di cose di cui parlare prima di arrivare a quelli. Occorre innanzitutto cercare di chiudere idealmente “l’anello asiatico”, che nel 1999 si arricchì di nuovi interessanti (quanto sconosciuti a noi occidentali) capitoli. Avete capito bene: ho proprio scritto 1999. In quello stesso anno, proprio mentre veniva alla luce “Ringu 2” di Nakata, l’emittente giapponese Fuji Television in coproduzione con la Kyodo Television proponeva al proprio pubblico la miniserie tv “Ringu: Saishūshō” (リング, 最終章, Ring The Final Chapter). “Saishūshō” è in linea teorica l’adattamento del primo romanzo Kōji Suzuki, “Ring”, ma nella pratica numerose linee narrative sono inventate di sana pianta: la durata globale prevista (una decina di ore complessive) richiedeva evidentemente diversi personaggi di contorno utilizzati da un lato per creare false piste e suspense, e dall’altro per aumentare l’effetto drammatico. Alla voce “Ringu: Saishūshō” di wikipedia si dice che quella che ho appena definito banalmente “serie tivù” è in effetti un dorama, parola che deriva dall’inglese “drama” e che è usata per indicare un certo genere di format televisivo giapponese. Non necessariamente si tratta di prodotti raffazzonati o di scarsa qualità. Anzi. Molti dorama sono basati su manga di successo e questo garantisce loro, se non altro, maggiore varietà di generi e trame di quanta non ve ne sia nelle fiction di casa nostra.
“Saishūshō” nella fattispecie è composto da 12 episodi (*) e la trama, come già accennato poco fa, diverge sia da quella del libro di Suzuki che da quella del film di Nakata. I personaggi principali sono il giornalista Kazuyuki Asakawa (Toshirō Yanagiba) e il solito Ryūji Takayama (Tomoya Nagase), stavolta nell’inedito ruolo di antagonista. Takayama è qui poco più che ventenne, cosa che, come scopriremo alla fine, non è affatto un vezzo dello sceneggiatore, ma è funzionale alla trama. Asakawa invece è vedovo con un figlio piccolo, Yōichi (Yūta Fukagawa), ed è coadiuvato nelle indagini dalla sua giovane, petulante collega Akiko Yoshino (Kotomi Kyōno, palesemente innamorata di lui) e dalla bella dottoressa Rieko Miyashita (Hitomi Kuroki), un’amica della sua defunta moglie.
Yoshino e Miyashita, per inciso, sono anch’essi personaggi nati dalla penna di Suzuki, ma nei suoi romanzi sono… due uomini. Yoshino compare in “Ring” e, come nella serie, coadiuva Asakawa nelle indagini; Miyashita è invece la “spalla” del protagonista Mitsuo Andō in “Spiral”. Per concludere la panoramica, il dottor Nagao (Kei Yamamoto, qui capo di Miyashita e in lizza per la carica di nuovo direttore sanitario) ricopre più o meno lo stesso ruolo che aveva nel libro, ma non è affatto una figura secondaria o legata solo al passato, perché si ritrova a fare involontariamente il gioco di Sadako; Mai Takano (Akiko Yada) è la sorella di Ryūji Takayama e Sadako Yamamura viene ribattezzata Sadako Ikuma, poiché adottata legalmente, giovanissima, dal dottor Heihachirō Ikuma e da sua moglie.
Come da copione, Asakawa incappa nel mistero della morte per arresto cardiaco di alcuni giovani avvenuta alla stessa ora dello stesso giorno e, dopo una breve indagine, riesce a recuperare e visionare il video maledetto che, come vedremo in seguito, qui altro non è che la registrazione del videoclip di un famoso brano pop. Fra gli studenti si mormora che chi vede il video di quella canzone è destinato a morire dopo 13 giorni, ma i più ritengono che questa sia solo l’ennesima leggenda metropolitana.
Sul significato del numero 13, che in questa serie sostituisce il numero 7 originale, si potrebbero tentare delle ipotesi. In realtà è solo in Occidente che il numero 13 viene considerato un numero sfortunato (in Giappone, viceversa, si tende a demonizzare il 4 (shi) e il 9 (kyu) a causa della loro fonetica, così simile e quella di “morte” e “agonia” rispettivamente). Dopo varie elucubrazioni sono giunto alla conclusione che 13 giorni siano semplicemente un modo per poter comodamente includere trame e sottotrame, senza doversi affannare troppo per rispettare il limite temporale che, inevitabilmente, la maledizione di Sadako impone.
È a questo punto che entra in scena Ryūji Takayama, un giovane laureato in antropologia che sostiene di avere facoltà paranormali e che vive con la problematica sorella Mai. Grazie a lui, Asakawa scopre che nel video è celata una maledizione e che gli restano pochi giorni per capire chi ne è l’autore e come neutralizzarla. Lui crede che le immagini nascoste nel video siano state create interferendo con onde elettromagnetiche nel segnale TV al momento della trasmissione, ma ovviamente si sbaglia e sarà proprio Takayama a indicargli quella che indirettamente si rivelerà la pista giusta: quella che punta a Shizuko Yamamura e a quella pratica chiamata nensha, o fotocinesi. Da qui si dipana la solita corsa contro il tempo, resa più adrenalinica da numerosi intermezzi, più o meno rilevanti per la storia principale, che coinvolgono diversi personaggi, molti dei quali destinati a scomparire prima dell’inedito finale. Asakawa e Yoshino si recano a Izu Oshima, luogo natale di Shizuko, ma la vera svolta arriva quando concentrano le indagini sul defunto dottor Ikuma: i due scoprono che questi aveva una figlia, Sadako, allontanatasi da casa circa vent’anni prima per tentare la carriera d’attrice. Mentre Takayama viene accusato di omicidio, al laboratorio Miyashita deve far fronte al furto di materiale genetico, ovvero delle colture delle cellule che contengono il virus trovato nel corpo di una delle persone morte d’infarto. Seguire a ritroso fino all’origine la diffusione della leggenda metropolitana che riguarda il video maledetto servirà invece a scoprire dove si trova (o si trovava) Sadako…
Qualche altra spiegazione, pur senza entrare troppo nel dettaglio, è d’obbligo. Che l’infarto nelle vittime sia provocato da un virus lo scopre Miyashita già nel primo episodio: il virus è innescato dalla maledizione di Sadako. In altre parole, la visione delle immagini del video attiva un virus che è già presente, seppur in forma latente, in ognuno di noi. Una volta innescato, le sue cellule cominciano a replicarsi a una velocità molto accelerata. Ove la maledizione di Sadako può essere considerata un virus a tutti gli effetti è nella sua capacità di espandersi in maniera esponenziale, invadendo il corpo umano come un parassita. L’odio di Sadako è un agente distruttivo che travolge indifferentemente tutto e tutti, ma anche una caratteristica trasmissibile geneticamente; Ikuma lo aveva capito ma, non avendo il coraggio di adottare una soluzione radicale, aveva ideato un geniale antidoto, o meglio un vaccino, contro il riaffiorare delle memorie genetiche di Sadako.
Asakawa e Miyashita sono in qualche modo complementari, il primo più disposto a credere all’intangibile e la seconda razionalista convinta, anche per deformazione professionale, e scettica per partito preso sull’esistenza della maledizione, con Yoshino al terzo lato di questo insolito triangolo. Per Asakawa spezzare la maledizione significa salvare se stesso e chi ama e Yoshino ha più o meno le stesse motivazioni, mentre per Miyashita conta anche la sfida intellettuale, la sua lotta di medico che desidera riaffermare la supremazia della scienza. Miyashita riuscirà davvero a raccogliere l’eredità di Ikuma, ma questo non avverrà per l’infallibilità della scienza, ma solo grazie a un po’ di fortuna, o meglio a un aiuto insperato. La vera chiave di volta si troverà dipanando il passato di Ryūji e Mai e il segreto di una mutua dipendenza che assume fin da subito toni morbosi, nonostante (o forse proprio per questo motivo) fra i due non vi sia un vero legame biologico, come si evince dai diversi cognomi che portano.
Come avrete capito, in questa serie TV viene introdotto per la prima volta anche quello scenario genetico che tanta parte avrà nel seguito di questo speciale. Ne riparleremo verso la fine del mese, più o meno, dopo aver introdotto anche la seconda serie TV (cosa che avverrà nel prossimo articolo) e qualche altro argomento, per tirare le somme sulle varie trasposizioni della saga di Ring e, soprattutto, sui romanzi da cui derivano.
Per ora cercherò invece di dare un giudizio su “Saishūshō”, un giudizio che non sarà molto imparziale perché (ebbene sì, nel caso ve lo steste chiedendo) a me la serie è piaciuta. Cosa potevate aspettarvi, d’altronde, da un fan di vecchia data della saga di Ring come me? I principali difetti della serie sono indubbiamente le diverse linee narrative a volte non ben bilanciate e intervallate da quelli che possono sembrare dei riempitivi, e il gusto estremo per il dramma. Il taglio delle inquadrature, la qualità delle immagini, la sovrabbondanza di primi piani e di musica denunciano subito la sua origine: la serie è pensata per un pubblico televisivo, e si vede. A volte l’effetto soap opera è in agguato, specialmente nei siparietti pseudo-romantici fra Yoshino e Asakawa e nelle (tenere, peraltro) interazioni di quest’ultimo con il figlioletto, mentre in altri momenti il susseguirsi di avvenimenti e colpi di scena non lascia letteralmente il tempo di tirare il fiato.
Oltre a questo, alla fine non tutto torna perfettamente e l’ipotesi scientifica sulla quale il tutto si regge sembra quantomeno opinabile, ma pazienza: la storia è avvincente e i personaggi sono quasi tutti interessanti e ben delineati, anche quando si capisce che la loro ambiguità è volutamente esagerata. Fra i principali, Ryūji è quello che rimane tra luci e ombre fino alla fine, per poi abbracciare un destino che lascia l’amaro in bocca, ma quello davvero indimenticabile è il piccolo Yōichi. Se avete un cuore, state certi che lui ve lo spezzerà.
Ma forse la domanda che voi tutti vi state ponendo è: “Ringu: Saishūshō” fa paura? Sì e no. Qualche sobbalzo la serie lo regala, ma si tratta quasi sempre di tensione nervosa. Le morti messe in scena certo non mancano, ma non aspettatevi sangue o frattaglie esposte: più che un horror, questo è un thriller atipico che si regge sull’investigazione e sul lento svelamento del mistero. Un po’ di terrore in più, sempre entro i limiti televisivi, lo regalerà la seconda serie, ma di questa, come detto, parleremo la prossima volta. Una piccola curiosità riguarda il fatto che nella serie hanno recitato ben due popstar giapponesi: la prima, Tomoya Nagase, che presta il volto a Ryūji, è il singer della band Tokio. La seconda è la giovanissima (al tempo delle riprese, naturalmente) Nao Matzusaki, che nella serie TV, oltre a comparire in un episodio nella parte di se stessa, è anche l’interprete di “Shiroi yo”, il brano musicale il cui videoclip contiene la maledizione di Sadako. Se siete curiosi, “Shiroi yo” lo potete gustare qui di seguito. Una canzoncina a mio parere piacevole, se solo non fosse per la voce stridula di Nao Matzusaki che, se me lo permettete, dovrebbe dedicarsi ad un’attività diversa, magari più prossima all’agricoltura.
(*) I dodici episodi della serie TV Ring Saishūshō sono disponibili sul tubo: il primo episodio qui.
(*) I dodici episodi della serie TV Ring Saishūshō sono disponibili sul tubo: il primo episodio qui.
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 18 in un totale di 100. Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 18° candela...
Che meraviglia questo speciale, in cui il cerchio si allarga sempre più... rimanendo sempre Ring ^_^
RispondiEliminaMa quanta roba hanno fatto in Giappone ispirata al testo di Suzuki? Solo di diritti d'autore quel tizio incasserà un botto!
Scherzi a parte, conto i minuti che separano queste puntate "ringose"!
In effetti deve aver fatto un sacco di soldi. Mai però come colui che si era inventato Godzilla negli anni Cinquanta...
Elimina13 non potrebbe invece essere proprio la somma dei due numeri nefasti 9 e 4? Doppia iattura, in parole povere.
RispondiEliminaO, per rimanere legati alla vicenda di The Ring: morte + agonia.
EliminaEcco un'ipotesi a cui non avevo pensato. Ottimo!
EliminaChissà perché in Italia nessuna tv si è mai presa la briga di trasmetterlo data la notorietà della serie.
RispondiEliminaProva a guardarti i primi cinque minuti e capirai. Non credo proprio che potesse fare presa qui da noi. Nemmeno quindici anni fa.
EliminaEh beh il dorama è già un azzardo di suo XD Anche in risposta all'ultimo commento :D
RispondiEliminaIn effetti a parte "ciò che non torna" cui fai accenno, interessante la questione genetica: pare che ci stupirai prossimamente :O
"Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma siamo scienza e non fantascienza." (Cit. Telefunken) ^_^
EliminaMa hai notato? Nel video della cantante i primi fotogrammi la riprendono in pose che vengono improvvisamente accelerate... Sarà un omaggio a quella danza inquietante di cui si diceva nello scorso appuntamento? :)
RispondiEliminaBene, questa della serie tv finora è la chicca più interessante tra quelle che ci hai regalato in questo tuo speciale.
RispondiEliminaNiente male, vero? ;)
EliminaAnch'io, come Ivano, avevo pensato subito alla somma di 9 + 4 per avere 13. Qualcuno mi aveva detto che anche in Occidente il numero 4 è associato alla morte, ma non mi ricordo come mai. Comunque è davvero sterminato il mondo di Sadako: una leggenda terrificante e molto antica ha originato un romanzo, innumerevoli film e serie tv. Incredibile, come un torrente in piena.
RispondiEliminaA me risulta, ma potrei sbagliarmi, che in Occidente si evita il quattro solo per una forma di "solidarietà", non sempre disinteressata. Molte aziende, per esempio, evitano di inserire il numero 4 nelle sigle dei loro prodotti per poter continuare ad esportare merce laddove il fatidico numero non è bene accetto.
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