La vegetariana

«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi. 

Quella che avete appena letto è la sinossi di “Chaesikjuuija”, romanzo del 2007 dell’autrice coreana Han Kang pubblicato da Adelphi nel 2016 con il titolo “La vegetariana”. Non è un argomento nuovo per il blog, quello di “Chaesikjuuija”, visto e considerato che già in tempi non sospetti, quando Obsidian Mirror aveva da poco aperto i battenti, pubblicai una (acerba) recensione dell’adattamento cinematografico che ne fece il regista coreano Lim Woo Seong due anni dopo la prima edizione coreana del romanzo. Quando vidi quel film, senza nemmeno sapere che vi fosse un romanzo alle spalle, pensai che accostare il vegetarianismo alla schizofrenia fosse un passo falso, un clamoroso scivolone del regista, ma ora mi rendo conto che è proprio quel presupposto a fornire alla storia una profondità del tutto particolare.
La lettura del romanzo, che finalmente posso stringere fra le mani in una bella edizione in italiano, mi ha donato una percezione molto diversa della vicenda. Quella de “La vegetariana” è una storia forte e che costringe a fare i conti con se stessi, e non nego che mi sia entrata nel cuore anche perché il tema mi riguarda ormai molto da vicino (no, non sono io che ho rinunciato alla carne, ma la mia compagna, anche se questo tecnicamente fa di me, per motivi di praticità ai fornelli, un mezzo vegetariano). 

L’incipit è quantomeno singolare: Yeong-hye si illude che smettendo di mangiare carne il sogno che la perseguita svanirà, ma questo non avviene. La donna prende a dormire e a mangiare sempre meno, in un percorso senza ritorno che sembra voler spogliare il suo corpo di tutto ciò che non è essenziale, e ben presto acquista l'asciuttezza e poi la spigolosità di chi si nutre poco e male. Ma Yeong-hye non sopporta più nemmeno i vestiti, come se fosse una pianta che per poter vivere necessita di essere accarezzata dai caldi raggi del sole, e diviene ancora più silenziosa, distaccata e assente di quanto già non fosse. Il fastidio e la rabbia dei suoi parenti non sortiscono alcun effetto, e il distacco anche fisico dal marito (che, a suo dire, puzza di carne) segna la fine del suo matrimonio. Una circostanza che non sembra addolorare troppo nessuno dei due, per la verità. Fra le cose che tenevano assieme la loro unione sembravano esservi molte cose, ma non certo l'amore. Quando sembra che nonostante tutto lei possa trovare un suo equilibrio entra in scena suo cognato, marito di sua sorella In-hye: l’uomo è un artista in crisi e, di nascosto da sua moglie, la fa posare per lui. Il corpo di Yeong-hye diviene allora una tela dipinta di stupendi fiori colorati che si anima per dar forma alle ossessioni di entrambi. In qualche modo quei fiori di colore sembrano lenire lo spirito di Yeong-hye, ma poi la sua discesa nella schizofrenia e nell'anoressia riprende il suo corso... 

All'apparenza il film è molto fedele al romanzo, anche per la non trascurabile ragione che quest’ultimo ha una struttura lineare, con pochi personaggi e, in generale, molto “cinematografica”; non ho però mai avvertito con tanta forza come in questo caso che certe sfumature di una storia non si possono rendere a dovere in un film, perché richiedono quell’immersione totale nei pensieri e nei sentimenti dei personaggi che solo la scrittura può dare (e questo romanzo, con la sua struttura ripartita che propone tre diversi punti di vista, è esemplare in tal senso). 
Manca, nel film, quel senso di straniante oppressione che permea per intero il romanzo. I personaggi del film somigliano molto a quelli originali, ma non sono del tutto gli stessi. Il marito, ad esempio, ne esce molto meglio: compare poco, ma per brevi attimi sembra perfino amorevole; la sorella, chiusa nel suo dolore, ci fa appena intuire quel grumo denso di sentimenti che le si agitano dentro, e che riguardano tanto Yeong-hye che se stessa; Yeong-hye è una presenza più che mai evanescente, già fantasma, come quelle macchie di colore che a poco a poco le si cancellano dalla pelle. 
Il cognato è invece se possibile ancora più squallido che nel libro, dove si approfitta di lei perché ossessionato dalla macchia mongolica su una delle sue natiche, di cui ha appreso l'esistenza per caso (un aspetto che nel film non è assente, ma neppure sottolineato a dovere). Quella macchia di colore chiama altro colore, proprio come quel corpo di donna reclama la nudità. La regia dipinge l'uomo come un personaggio quasi monodimensionale nel suo egoismo e mostra ben poco dei suoi tormenti (che, va detto, restano comunque piuttosto oscuri per chi come me non ha un temperamento artistico). Tuttavia, la questione della macchia mongolica è interessante anche per un’altra ragione: poiché è presente nei neonati e destinata a scomparire nei primi anni di vita, il suo persistere sarebbe la prova che Yeong-hye è rimasta disperatamente aggrappata alla propria infanzia. 

Anche nel romanzo, va detto, Yeong-hye è una presenza quasi muta: brandelli del suo sogno di morte appaiono qua e là come brevi flussi di coscienza di cui sembra impossibile poter afferrare la vera natura. Una foresta buia. Non un’anima viva. Le foglie aguzze sugli alberi, i miei piedi tutti graffiati. Questo posto mi pareva di ricordarlo, ma adesso mi sono persa. Ho paura. E freddo. Dall’altra parte del burrone ghiacciato, una costruzione rossa simile a un granaio. Una stuoia di paglia sventola floscia davanti all’ingresso. La arrotolo verso l’alto e sono dentro; è dentro. Una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne… non c’è fine alla carne, e nessuna via d’uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle. 

A Human Being. Actually was a flower.
C’è qualcosa di sinistro e tremendo nel silenzio della protagonista, che si spegne quietamente, come se volesse rinunciare alla vita insieme alla sua natura umana - perché cos’altro se non la morte permette la fusione perfetta con la natura? 
Proseguendo nella lettura non ho potuto fare a meno di riflettere sul cibo e sul suo significato più profondo in un mondo dove, accanto a chi è ipernutrito, ci sono realtà in cui si muore di fame. Il cibo dà la vita, ergo il cibo è vita, non sorprenda allora che il dolore di Yeong-hye non sia solo il suo, ma inglobi quello di tutti gli esseri viventi che hanno nutrito il suo corpo. Quello che mi fa male è il petto. Qualcosa si è bloccato all’altezza del plesso solare. […] Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati, intrecciati fra loro uno strato dopo l’altro. È per la carne. Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere. 

La narrazione è pregna di un dolore sussurrato ma non per questo meno consistente, ma resta il fatto che mi riesce difficile considerare questa come una banale storia di discesa nella follia, nonostante il sospetto che la vicenda di Yeong-hye possa trarre origine da un trauma infantile (dacché lei era, di tre fratelli, la vittima preferita del padre violento). 
Si sente spesso parlare delle radici psicologiche dei disturbi alimentari, ma non sono certo che in questo caso la spiegazione sia così semplice, una chiara e univoca reazione di causa-effetto come raramente se ne trovano anche nella vita reale. La risposta la fornisce forse In-hye nella terza e più struggente parte del romanzo: La ragione ufficiale per cui non aveva voluto che Yeong-hye fosse dimessa, quella che aveva dato al medico, era la preoccupazione di una possibile ricaduta; ma adesso poteva ammettere con se stessa come stavano davvero le cose. Non era più in grado di far fronte a tutto ciò che la sorella le ricordava. Non aveva saputo perdonarle di essersi involata da sola al di là di un confine che lei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi delle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero. 

Ancora una volta un’opera proveniente dall’Oriente si occupa del corpo; un corpo che è espressione della mente e dell’anima, e nel quale il male di vivere diviene un grumo che per sciogliersi richiede l’annientamento della carne stessa. Yeong-hye intraprende un cammino non dissimile da quello degli asceti che, soffrendo e immolandosi, entrano in comunione con la divinità, una divinità immanente che è stata assorbita dalla natura; forse per rendersi immune dalla sofferenza stessa, oppure come forma di ribellione, in una maniera chiara e radicale di riappropriarsi del proprio corpo, perché corpo e anima sono un tutt’uno. D’altra parte, come la storia di Gesù c’insegna, è il sacrificio (sàcer fàcere) che rende sacri. Perché, è così terribile morire?

Is it so terrible to die?

Commenti

  1. Splendida chicca: i brani di testo che hai riportato sono deliziosi! Me li mangerei :-D
    Scherzi a parte, mi ha davvero intrigato, sia libro che film.

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    1. Mi fa piacere :-D È una storia semplice ma ricca di significato e spero proprio di non aver detto troppo. Io (come si sarà capito) giudico comunque il libro superiore al film.

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  2. Grazie per la bella recensione.
    Negli ultimi tempo questi libro mi è spesso stato "suggerito" da Amazon in base a miei precedenti acquisti, ma fino ad ora ero piuttosto perplessa se prenderlo o meno; adesso comincio a propendere per la prima ipotesi...

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    1. Grazie a te per il gradimento :-) Il libro è molto triste, questo è certo, ma se non ti spaventano le storie impegnative te lo raccomando sicuramente. Il prezzo non è proprio economico, ma in compenso l’edizione Adeplhi è come sempre molto bella.

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  3. Devono essere - sia il romanzo che il film - estremamente psicologici. D'altronde questo "fastidio" per il proprio corpo ha un suo simbolismo in un'epoca dominata da chirurgia plastica, bulimia, anoressia e altri disturbi legati alla non accettazione del proprio corpo in termini estetici.

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    1. In linea di massima sono d’accordo (anche se in questo caso la protagonista non è un’adolescente problematica ma un’adulta con un disagio esistenziale profondissimo), direi che ne ha anche in rapporto all’ossessione per il cibo che sembra dilagare un po’ ovunque (mi riferisco anche al fiorire di tanti, insopportabili talent show in stile MasterChef, mia umilissima opinione). Riguardo la questione estetica, c’è una differenza tra libro e film che è evidente fin dalle prime pagine/fotogrammi, ma non dico altro ^_^

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  4. La cosa interessante è il rapporto malato della protagonista con il suo corpo e con quello degli altri. Mi sembra una tendenza molto orientale questa. O sbaglio?

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    1. E si tratta, guarda caso, di paesi che in molti casi hanno un alto tasso di suicidi. Neanche noi ne siamo immuni, come faceva notare giustamente Ariano, ma forse la manifestiamo in modo diverso. Nel post ho parlato di "male di vivere", qualcosa di difficile da capire per chi non lo vive, ma qui il discorso è portato all'estremo, perché la protagonista sembra non riconoscersi più nemmeno nella specie umana.

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  5. Da quello che scrivi, i punti d'interesse sono molti. Mi hai convinto a comprarlo.

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    1. È davvero bastato così poco per convincerti? Forse dovrei cambiatre lavoro e mettermi a fare il venditore... :D

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  6. Non l'ho ancora letto, mi ispira molto, anche perché sarebbe il mio primo "coreano" e sono parecchio curiosa.
    Probabilmente la questione del vegetarianismo è un mezzo pretesto per andare "oltre", almeno questo mi suggerisce la tua bella riflessione *_*

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    1. Sono certo siano in molti ad essere completamente digiuni di letteratura coreana, visto che la sua diffusione in Italia è ancora piuttosto ridotta e che le grosse case editrici sembrano ancora ignorarla, con le dovute eccezioni. Basti pensare che di Yi Mun-yol, lo scrittore coreano più tradotto all'estero, non esiste nemmeno una pagina di wikipedia in italiano.
      Qualcosa sta però evidentemente cambiando, e lo dimostra questa uscita di Adelphi, oltre che alcune iniziative promosse da piccole CE indipendenti, come la ObarraO di Milano che ha dedicato un'intera collana a tale letteratura.

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  7. Lontano dai miei canoni di lettori, ma indubbiamente un libro dalla tematica affascinante.
    Peccato che i libri Adelphi costino uno sproposito... :-P

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    1. Il prezzo di copertina degli Adelphi è sempre stato un ostacolo anche per me e, tranne credo quest'unica eccezione, tutto ciò che possiedo di Adelphi proviene dal mercato dell'usato.
      Devo però ammettere che mai mi è capitato di rimanere deluso da un titolo Adelphi. Lo considero un marchio di garanzia.

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  8. un libro che non solo non conoscevo, ma non credo avrei mai preso in considerazione... eppure c'è sempre una prima volta, no?

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    1. Ben detto! Nella vita bisogna provare di tutto. Beh, non proprio tutto...

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  9. Mi sembra familiare... forse ne ho visto qualche scena un po' di anni fa.
    Per quanto riguarda il discorso sul cibo, alcuni studiosi mettono in relazione il digiuno dei santi con l'esaltazione mistica.

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    1. Sì, è vero. Potrebbe essere una chiave di lettura.

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  10. L'idea di questo libro mi ha veramente sorpreso: non avrei mai pensato che da una cosa "innocente" come il vegetarianesimo si potesse collegare una storia così! Almeno, a me sembra una cosa molto innocente, tanto che anch'io mangio pochissima carne (pur non essendo veramente vegetariana).

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    1. Io avevo avuto questa impressione guardando il film, ma poi ripensandoci è chiaro che spesso i disturbi dell'alimentazione sono spesso legati a problemi psicologici. Qui ovviamente il discorso è estremizzato e, se sommi a questo il fatto che vegetariani e vegani a volte non godono di una buona fama...

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